Trasfigurazione Parma












PADRE ERMES RONCHI

PELLEGRINI DELL’ASSOLUTO



SABATO POMERIGGIO 12 MARZO

Buon pomeriggio a tutti e grazie di essere qui in ascolto, è già un regalo per me potervi vedere. Grazie che date del vostro tempo all'ascolto, per me è una cosa importante. Ma veniamo a questo secondo momento, dicevamo discepoli, apostoli, siamo noi in una parrocchia del ventunesimo secolo, in una chiesa di questo secolo. Ricordando il Cardinal Martini che diceva che siamo in ritardo come Chiesa di duecento anni, mi sarebbe piaciuto approfondire con lui quali erano i punti di ritardo, ma magari di alcuni ho tentato anch'io di dire adesso. Discepoli, dicevo che letteralmente discepolo deriva dal greco che vuol dire imparati. Gli apostoli sono quelli che dopo aver imparato, sono mandati, sono in uscita. Sono i due tempi di un'unica partita, la prima parte dentro alla scuola di qualcuno, la seconda parte fuori perché dobbiamo avere sempre più chiara la consapevolezza di avere un tesoro d'oro puro che dobbiamo consegnare.
Cristiani oggi, discepoli oggi, come? Intanto vorrei dire che non c'è una strada oggettiva, c’è la tua, ognuno ha la sua. Chi serve Dio nella ascesi, chi nella vita consacrata, chi nella perfetta letizia, chi nella catechesi, chi nell'educazione dei figli, chi nel campo della scienza, chi nel campo dell’arte, chi come prete.
Ognuno ha la sua strada diversa dalle altre e ognuna dà lode e gloria a Dio e costruisce il cammino e compone un Sinodo, un convergere di strade. Lo Spirito Santo ha bisogno di discepoli geniali, vuole, cerca discepoli geniali, non dei ripetitori, non appiattiti, omologati. Discepoli geniali, vuol dire ognuno con la sua originalità propria, senza scimmiottare nessuno. Il primo nome dei cristiani nel libro degli Atti è una frase che in greco significa quelli della via, quelli della strada. Il cristianesimo nasce, dicevamo, nelle strade di Galilea, ma ancora prima è nato in una casa, non al tempio. Nasce in un’ abitazione, non in una sinagoga e quindi dobbiamo ripartire dalla casa. Il cristianesimo deve ripartire oggi dalle Domus Ecclesiae, così venivano chiamate le chiese case. Il cristianesimo ripartirà davvero se ritrova questa fiamma originaria delle Domus Ecclesiae, come fu per i primi quattro secoli, quando spezzavano il pane nelle case, quando la prima comunità si riuniva a Gerusalemme nella casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco. La liturgia domestica é quella che ha salvato la religione ebraica. Ad esempio, nella diaspora, quando ci volevano dodici uomini adulti, dodici maschi adulti per fare una sinagoga, loro hanno salvato nella casa quando non c' erano rabbini, ma le donne di casa preparavano le feste, la tavola per le feste, tenendo il loro contributo vivo. Allora, tra parentesi, in tutta l'area mediterranea, la trasmissione della fede è matrilineare. Sono le madri, che non hanno nessun ruolo ufficiale nella Chiesa, le donne che hanno il compito di generare la fede, perché la fede non si trasmette, la fede si genera. Allora il cristianesimo potrà ripartire, credo dalle Domus Ecclesiae, dal catecumenato familiare, dalla liturgia domestica. Un esempio che mi ha commosso: una famiglia, durante il lockdown del venti, quando non si poteva neppure uscire di casa, quando non c' erano celebrazioni in chiesa, il giorno del giovedì Santo, papà, mamma e tre figli hanno fatto in casa il rito della lavanda dei piedi. Ognuno ha lavato i piedi a tutti gli altri: i figli ai genitori, il marito alla moglie, la lavanda dei piedi nella memoria del gesto di Gesù e hanno detto che fu una cosa di una potenza, di una carica spirituale e umana straordinaria, perché noi l'abbiamo ridotto a una ritualità sì evocatrice, ma non la verità. E proprio nella casa ho sentito che qualcosa può davvero essere in cammino in modo nuovo. Si è interrotto il catecumenato familiare, dicevamo, io mi domando quanti ragazzi possono dire di aver visto in casa il papà e la mamma fermarsi per pregare insieme, per leggere insieme il Vangelo e diranno: se la religione non è importante per mio padre, per mia madre, perché deve esserlo per me? E quindi la disaffezione. Noi ci lamentiamo, è vero che i giovani sono pochi, ma la disaffezione risale alla generazione precedente, se non a due generazioni prima. Ma cristiani si diventa, Tertulliano disse: “cristiani si diventa, non si nasce.” Allora ecco la domanda: come camminare al seguito di Gesù per diventare cristiani oggi? Per diventare cristiani, brave persone o discepoli di Gesù in cammino? La risposta è facile, al punto che “discepoli in cammino” è il primo nome dei cristiani. Sono quelli che hanno la strada del cuore nel cuore, come diceva il salmo 84 del pellegrinaggio: “Beato l'uomo, beata la donna! Felice l'uomo che ha sentieri nel cuore, che ha la strada nel cuore, che ha speranza, che ha futuro, che guarda avanti”. E il Vangelo diventa viaggio, via da percorrere, spazio aperto. Gesù non ama i paletti, ama gli orizzonti e noi non siamo al mondo, dicevo anche stamattina, per essere immacolati, ma per essere incamminati. I cristiani non devono essere perfetti, devono essere cercatori mai arresi e affidabili nelle relazioni con gli altri, cercatori affidabili. La conversione che tutta la Bibbia chiede, questo cambiamento di vita non è un fatto morale, non è diventare bravi ragazzi o perfettini. Dio non ama i bravi ragazzi, ama le persone sincere, ama le persone fragili che riconoscono la loro fragilità che può diventare abitata dall’ assoluto di Dio e costruiscono sopra le loro debolezze per vivere una vita buona. La fede ci insegna a vivere in questo mondo, non come esecutori di ordini ma come inventori di strade che ci portino gli uni verso gli altri e insieme verso terra nuova e cieli nuovi, noi cristiani apparteniamo ad un sistema aperto che chiede il nostro contributo di passi. Il cristianesimo è un sistema di ricerca, non di esecuzione di tradizioni ricevute. Non diventeremo mai cristiani compiuti completamente ma non saremo giudicati se avremo raggiunto la cima della montagna infinita della perfezione, ma se avremo camminato con lealtà, con perseveranza verso il cuore della vita, magari anche col fiatone, magari cadendo, ruzzolando ma ogni volta rialzandoci. E la vera differenza è tra chi cammina e chi sta fermo. Lentamente muore chi non cammina e Cardinal Martini aggiungeva una sua differenza: “La vera differenza, diceva, è tra cristiani pensanti e cristiani non pensanti”. Allora, per essere cristiani pensanti, ecco, io mi aiuto con tre punti che adesso andiamo un pochino a toccare.
Primo: ruolo e compito. Secondo: passare dal cristianesimo di consolazione al cristianesimo di innamoramento. Terzo: la creatività. Il primo punto, ruolo e compito. Molti tra noi hanno confuso il ruolo col compito ed è necessario distinguere bene. Il ruolo corrisponde a funzioni che sono chiamato a svolgere dentro l'istituzione, per esempio nella parrocchia, nelle liturgie, nei sacramenti, nelle catechesi, nell'organizzazione del ministero, nella burocrazia, nella società:adempimenti, mansioni, pratiche da espletare. Il ruolo deriva dal latino rotulus, che era il foglio arrotolato su cui venivano scritti per esempio gli ordini del giorno o le liste dei nomi. Il ruolo corrisponde a quello che oggi in una squadra di calcio si dice: uno gioca nel ruolo di portiere, uno nel ruolo di attaccante, i più bravi possono riempire più ruoli. Anche nel teatro uno recita un ruolo. II compito deriva dal latino complere, che vuol dire portare a compimento, a pienezza, a maturazione. Il compito, il completamento è la mia missione, il compimento della mia vita, la fioritura del mio essere umano e religioso. Il ruolo è per me una cosa molto importante e molto bella, anche perché il ruolo ci porta a far leva sui numeri, sui risultati, mettersi a contare e tirare le somme, ma questo è un tempo di semina non è un tempo di raccolto. Invece di far leva sui numeri dobbiamo far leva sui sogni e anche sulle lacrime. Come dice la preghiera di padre Giovanni Vannucci dietro l'icona di Margherita che mi ha regalato Don Pino, “la tua chiesa sia bella come i sogni e le lacrime di chi visse e morì nella notte per costruire”. Allora, invece di far leva sui numeri, dobbiamo far leva sui sogni e sulle lacrime. Il nostro compito e avviare processi, iniziare percorsi, compiere il primo passo, saltare ad ogni alba, seminare ad ogni stagione. Per esempio, il prete ha un ruolo ben definito nella liturgia, ha un ruolo nella organizzazione della parrocchia, nell'istituzione ecclesiale della Diocesi. E' chiaro in cosa consiste? Ha un ruolo di autorità, di presidenza, di guida, di predicazione, di controllo, ma il suo compito non è quello. Applichiamolo a noi. Il compito, il compimento della vita di un prete non si riduce a questo, non si riduce a celebrare Sacramenti. Il compito è incarnare il Vangelo, essere trasparenza di Dio, un gigantesco dito puntato su Gesù, trasfigurazione del cuore, essere testimone della luce, come detto del Battista, venne a rendere testimonianza alla luce, luminoso della luminosità di Dio. Essere canale di grazia, essere Cristo, alter Christus, come detto di San Francesco o come dice Paolo, “non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me.” Questo è il compito. I ruoli poi sono cose importanti, ma secondari. Il ruolo ha qualcosa che ti rassicura ,ti dice sei a posto, hai fatto tutto bene, hai fatto secondo le regole, hai adempiuto gli incarichi, hai fatto i tuoi adempimenti, sei a posto, hai finito. In questo modo tu sei uno che entra in un sistema chiuso, senza aria sei solo un funzionario. Il compito invece è infinito, mai finito. È ciò che ti incalza a dare carne al Vangelo, a dargli cuore e tempo e non sei mai a posto, santa inquietudine. Il compimento non è mai concluso, la fioritura della mia vita è per più avanti. Allora senti di appartenere a un sistema aperto, quello di Cristo, che si sviluppa insieme a te continuamente. Lo Spirito Santo è all'opera. La mia è una storia sacra, la vostra è una storia sacra, dobbiamo crederci e collaborare con lo Spirito per questo. Il cristianesimo è un sistema di ricerca, non di adempimenti, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione. il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione. Faccio un esempio per capire meglio. Il padre di Giovanni Battista, Zaccaria, è sacerdote ha forza culturale, prestigio sociale, una posizione economica solida, un ruolo preciso. Non solo, ma di fronte alla legge è giusto, anzi irreprensibile. Insieme con Elisabetta sono addirittura discendenti di Aronne, della famiglia di Mosè. Insieme quei due sono il top della religione ebraica, ma hanno un tallone d’Achille: sono senza figli, sono sterili. Mi sembra un po' anche come tante parti della Chiesa di oggi.
É molto significativo. La vecchia religione non generava più, era sterile. In Israele il potere religioso era maschile, ereditato, autoreferenziale, possessivo, non era una vocazione. Tutti i re, i sacerdoti e i profeti erano tutti maschi.
Zaccaria entra nel tempio per la preghiera (primo capitolo di Luca) esegue bene i riti, offre l'incenso all'altare, i profumi nel modo giusto, fa tutto esattamente. Svolge bene il suo ruolo. Il popolo è fuori. Il popolo ha delegato al sacerdote la comunicazione con Dio e aspetta (già questo è il clericalismo antico che sembra invincibile) là nel tempio. Un angelo gli annuncia la nascita di un figlio, ma Zaccaria non ci crede, vuole un segno. Noi siamo vecchi, dice: da quale segno capirò che questo è vero? E l'angelo Gabriele: “poiché non hai creduto diventerai muto”. Non ascolta la parola e perde la parola. Non riesce più a dire niente. Il popolo fuori attende, ma il sacerdote non porta a loro niente, se non il silenzio di Dio. Un simbolo drammatico della afasia oggi delle chiese. Non riusciamo a parlare alla massa delle persone. Ci sono tanti pastori afoni che nessuno ascolta e lo sono diventati perché, come Zaccaria, hanno perso la parola perché hanno perso l'ascolto. Le grandi istituzioni sono diventate mute. Le strutture religiose sono prigioni di Dio. Zaccaria, vedete, compie tutti i riti, li fa bene, secondo le regole, dice tutte le preghiere ma esce muto dal tempio. Ci sono i riti si, ma c' è la fede. Ecco la grande domanda: anche noi che seguiamo bene i riti, che facciamo le liturgie per benino, che adempiamo a tutte le norme… Ok, si', ma c'è la fede o siamo come Zaccaria? Il suo ruolo ufficiale è offrire l'incenso, ma il suo compito è accogliere la parola di Dio e viverla. Zaccaria fa le cose di sempre, le cose vecchie le fa a memoria, ma quando arriva il nuovo, un angelo, non lo sa piu' accogliere. Noi siamo chiamati in questa stagione che ci è data, bella e difficile, piena di cose che muoiono e di cose che nascono. Siamo chiamati a passare dalla ripetizione del vecchio al discernimento del nuovo. Si, ci ha chiesto di saper ascoltare il brusio degli angeli come Maria che sa ascoltare Gabriele. Gabriele che ha sbattuto le ali sulla incredulità di Zaccaria, vola via dall'immensa spianata del tempio e atterra in un monolocale di povera gente, vola via dal sacro verso il quotidiano che è sacro. Io non sono di quelli che piangono sulla crisi della Chiesa, anzi mi sembra un'opportunità. Sembravano traversie dice Giovan Battista Vico ma erano opportunità. Dobbiamo essere futuri di cuore, non esiste aggettivo “essere un futuro di cuore”, ma avere una proiezione sul futuro perché qual è il grande rischio del ruolo? Sapete, ci sono ruoli nella mia comunità, per esempio nelle comunità religiose c' è il priore, la superiora, c'è il vicario, c'è l'economo c'è l'ospitalario, quello che è il refettoriere, c'è il bibliotecario, c'è quello che sta in portineria, tutti i ruoli… E quando uno ha un ruolo diventa un piccolo leader e adopera anche il minimo potere che ha per i suoi dispettucci, per i suoi privilegi, per fare avanti questo, indietro quello. Non vorrei che succedesse questo anche nelle parrocchie: quando uno ha un piccolo ruolo di presidente distribuire chi deve leggere le letture alla liturgia: tu sì, tu no, tocca a me, ne approfitto. Il ruolo quando ha potere, ci da la febbre. Ho visto gente compiere il proprio ruolo, per esempio in parrocchia, come dispetto, come esibizione della propria piccineria, dei propri favoritismi. Schiavi del ruolo, schiavi del potere dell'apparire, del sembrare ,dell'immagine. Quando per te non conta il bene che compi ma conta che il bene sia visto, sia approvato, sia applaudito, sia apprezzato dal capo e dagli altri, allora non ti interessa il bene, ti interessa il successo del bene. Questa è l'ipocrisia che Gesù combatte come grande male: amano passeggiare in belle vesti, ricevere i saluti nelle piazze, accedere ai primi posti e poi divorano i beni delle vedove. In analogia, non ti pesa tanto il male che puoi aver fatto, quanto che quel male, quella colpa vengano alla luce, che si venga a sapere, che se ne accorgano in parrocchia, che arrivi sulla bocca delle persone. Alle volte, fino a che nessuno se ne accorge quell'azione cattiva non mi sembra neanche poi così sbagliata, fino a quando non esplode sui giornali non ci sembra qualcosa di cattivo, neppure una cosa così grave in sé.
Perché questo? Perché siamo schiavi del personaggio. Siamo personaggi e non persone su una scena che recitiamo per il pubblico. San Francesco, Alter Christus, non aveva neanche il più piccolo ruolo nella più piccola comunità dei frati minori, né ecclesiale, né comunitario, ma aveva un compito: incarnare il Vangelo senza se e senza ma. Ecco il compito. Padre Turoldo diceva: “Io non sono ancora e mai il Cristo, ma io sono questa infinita possibilità.” Noi siamo l'infinita possibilità di essere Cristo, ognuno un Cristo incamminato, un Cristo incipiente, un Cristo appena avviato, un Cristo ai primi passi. Io non sono ancora il Cristo, ma sono questa infinita possibilità: ecco il compito. Lasciamo perdere i ruoli che ci ingannano, del piccolo e del grande. Vedete qual è il ruolo dei genitori in una famiglia: è quello di portare a casa il pane o di fare i lavori necessari al funzionamento della famiglia, ma il compito, il compito è quello di crescere figli felici, figli che siano contenti e al tempo stesso liberi. Il compito. Un insegnante: il suo ruolo è trasmettere nozioni, informazioni ma il suo vero compito e far crescere persone che siano capaci di scegliere e di inserirsi nella società in modo creativo. E allora dobbiamo saper distinguere anche nelle nostre case, nelle parrocchie, dovunque, tra ruolo e compito. Ecco il primo punto che desideravo sottoporre alla vostra attenzione. Il secondo, dicevo, passare da un cristianesimo solo di consolazione a un cristianesimo di innamoramento. Consolazione è una cosa importante, ma se si riduce solo a questo il rapporto col Signore, rimpiccioliamo a livello dei nostri bisogni la grandezza di Dio. La consolazione per quel problema che ho, quell'esame cardiologico che devo fare, aiutami per quel malanno, per quella relazione con mio marito, mia moglie in difficoltà. E' Dio che su questa valle di lacrime è chiamato ad aggiungere quel poco che manca, quel centimetro che mi manca che fa, come si diceva una volta, il tappabuchi, tappa i buchi, rammendo i piccoli strappi del mio vestito sociale o di salute, ma Dio non tappa i buchi, Lui apre profondità, apre orizzonti. Non devo tirare Dio alla mia misura ma devo alzare me alla misura di Dio, quindi puntiamo a un cristianesimo di innamoramento. Gesu' presenta Dio come una forza sorgiva che si inserisce nelle profondità del cuore, Dio è oltre, ma oltre è profondità, innamoramento, presuppone bellezza, ti innamori di una cosa bella. La fede, come innamoramento, nasce domani quando ascoltiamo il Vangelo, quell’espressione straordinaria di Pietro: “che bello Signore, qui con te, facciamo tre tende. Che bello! Come Pietro sul Tabor l'innamoramento nasce da un che bello gridato a pieno cuore. La fede deve essere anche qualcosa che aggiunge bellezza, incremento di bellezza, acquisizione di bellezza per il mio vivere. Ci fa innamorare forse la perfezione di Dio? No. L'eternità di Dio? No.
L'onnipotenza di Dio? No. La cosa ci farà comodo ma non ci innamoriamo di un onnipotente, anzi chi ha potenza sulla nostra vita forse lo possiamo anche ubbidire, ma per queste cose puoi anche adorarlo. Ciò che mi affascina sono la bellezza e la tenerezza di Gesù Cristo, quello che mi affascina è l'umanità di Gesù. L'ho scelto per questo, per come guarda, tocca, parla, entra nelle case, sta nel vento, abbraccia i bambini, prende il pane fra le sue mani, non finisce mai. Come tocca gli occhi, gli occhi si illuminano, tocca il cuore, il cuore esplode di gioia, ti innamori di una bellezza, una bellezza almeno intravista, perché la regola, la norma della bellezza è l'amore. Bello é sempre l’atto di amore, bello è chi ti ama, bellissimo chi ti ama fino all'estremo e la cosa più bella del mondo è quella accaduta appena fuori le mura di Gerusalemme, su quella piccola altura dove l'infinito si è fatto piccolo, dove l'eterno si fa ultimo respiro, dove l'Altissimo si è lasciato inchiodare su quel poco di legno, su quel poco di terra che bastano per morire, per morire d'amore. La fede è acquisire la bellezza del vivere. Questo mi fa innamorare del Vangelo. Acquisire che è bello vivere, amare, abbracciare, seminare, lavorare, avere amici, godere, soffrire per un figlio, è bello essere su questa terra barbara e magnifica. Umanità però che si libera, ascende, si illumina. E perché? Perché tutto ha senso. La vita non è come dice Shakespeare una favola sciocca raccontata sulla scena da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla. No, la vita ha senso e non è neanche come dice Bertolt Brecht: “le donne partoriscono a cavallo di una tomba.” Non è un vivere per la morte. La vita ha senso, il senso della vita è positivo e questo positivo scorre da qui verso l'eternità, sarà per sempre.
Quando gli apostoli escono dalla camera alta a Gerusalemme, escono e invadono le strade, invitano la gente a sognare la vita insieme a loro. Il grande compito bellissimo di tutti noi. Lo dice la Evangelii Gaudium: siamo chiamati a sognare la vita con gli altri. Siamo sognatori di vita insieme agli altri di una vita più bella, più buona, più felice. Siamo sognatori di un Dio bello, solare, attraente, seducente. Dobbiamo ridipingere l'icona di Dio qui, in questa chiesa dove c' è tanta bellezza, dove tante immagini raccontano e rimandano, rimbalzano la bellezza di Dio fino a noi. Abbiamo ridotto Dio in miseria. Lo dico come mea culpa, il dramma della nostra religione in Occidente è l'impoverimento di Dio. L'abbiamo ridotto a un controllore di sbagli, a rovistare nel passato e nel peccato dell'uomo nei cassonetti dell'immondizia di una vita.
Dobbiamo ridipingere l'icona di Dio. È forse il compito più urgente della Chiesa contemporanea. Bellezza è un nome di Dio. Lo dice San Francesco che prega: Tu sei bellezza, Tu sei bellezza. Lo dice sant’Agostino: tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova. La via legale per riscoprire che Dio è bellissimo. La via della bellezza. Vedete questa icona posta sul tavolo di Margherita Pavesi, la stessa autrice del pellegrino dell'assoluto, c’è una preghiera che dice: “venga la tua chiesa e sia più bella di tutti i sogni e di tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per costruirla.” Che cosa dice questa preghiera di padre Vannucci dietro questa icona? Dice: venga la tua chiesa e sia più bella. Ecco il primo aggettivo, il primo che il grande pellegrino dell'assoluto Padre Giovanni Vannucci ha intuito per la Chiesa che verrà, la Chiesa del futuro. Bello è anche l'aggettivo in bocca a Dio davanti a tutto ciò che aveva fatto, il primo aggettivo con cui qualifica il nostro mondo e tutti noi ai suoi occhi, agli occhi dei suoi amici, Dio guardò e vide che tutto era cosa bella. Che sia bella come i sogni e le lacrime, perché anche le lacrime hanno una bellezza. Quando un raggio di sole incontra una goccia d'acqua nasce un arcobaleno e tutti abbiamo visto nascere arcobaleni nelle lacrime di chi piangeva. Allora ecco la bellezza di questa chiesa è un simbolo di cio' che dobbiamo fare: porre mano a una chiesa che abbia bellezza e tenerezza e questo a partire dalle case, come dicevamo oggi. Il terzo punto è la creatività.
Se avete avuto occasione di leggere quel magnifico testo che è Evangeli Gaudium, la gioia del Vangelo di Papa Francesco, avrete incontrato quante volte parla di coraggio. Evangelii Gaudium chiede il grande coraggio per nuovi segni, nuovi simboli, nuovi linguaggi, nuova carne che servono alla consegna amorosa della parola agli altri. Il coraggio è la virtù dell'inizio nel dare inizio a processi e percorsi, costi quel che costi, che vuole scuotere dal grigiore, dalla stanchezza, dal senso di impotenza, dice no alla paura di sbagliare. Certo che possiamo sbagliare, ma non avere paura di sbagliare, abbi invece paura di restare immobile, chiuso. Poi c’è la creatività. Per ben quattordici volte papa Francesco chiede creatività nella pastorale, nella missione, nei servizi, nelle sfide di oggi, quattordici volte. Per la prima volta nella storia del magistero più alto della Chiesa ascoltiamo l'invito non all'obbedienza, non al dire di si, non ad adeguarti, anche se non capisci, non a seguire le indicazioni delle gerarchie, ma a rischiare di essere liberi, limpidi, leggeri, creativi e accanto alla creatività l'immaginazione la capacità di ipotizzare soluzioni, allenare i muscoli del sogno di fronte alla realtà, anche quando è difficile, davvero la fine del clericalismo sarebbe nella creatività dei laici. Ma noi non siamo creativi. Noi facilmente ripetiamo e ricicliamo con la follia di attenderci risultati diversi, continuando a fare le stesse cose di sempre. Non siamo originali ma omologati anziché autentici. Continua Papa Francesco chiedendo a tutti i cristiani, esortando ciascuno a usare la propria unicità, la propria originalità, ognuno diverso dagli altri. E addirittura dice: non temete di cantare fuori dal coro, non dissimulare i tuoi talenti nella omologazione al pensiero dominante, non temere, i conflitti ci potranno essere ma senza conflitto non c' è passione. Lo spirito cerca, vuole genera cristiani geniali. A ciascuno, a Pentecoste, è data una fiammella diversa, ogni fiammella illumina una vocazione, crea un'identità a ognuno ha dato un talento in modo diverso per l'edificazione comune. E poi la terza cosa ancora che chiede: la pazienza. Certo, molti tra noi non sono più pazienti perché tutto troppo lento e tutto troppo faticoso, ci sono troppi ostacoli, ma la pazienza è l'arte di vivere l' incompiuto in noi, vivere l'incompiuto negli altri, anche nella chiesa. Non è virtù di debolezza ma di sguardo che va oltre l'immediato e mantiene aperta la speranza, lo sguardo del contadino in inverno. Pazienza è l'arte del seme nella terra e non sai da quanto tempo di quanta esposizione al sole di Dio abbia bisogno mio fratello, mia moglie, mio marito, i miei figli per maturare in pienezza la loro vita. Un cristianesimo di creatività, di coraggio, di originalità, dove ci sono anche quelli che hanno il coraggio di cantare fuori dal coro. Un cristianesimo di domande più che di risposte a domande che nessuno si pone. Dio non è la risposta alle nostre domande. Io l'ho capito, non è la risposta alle nostre domande, ma la domanda dentro le nostre risposte. E’ come un amo da pesca che entra in noi e tira su cose che neppure sapevamo di avere. Vedete la forma di domanda del punto interrogativo come un amo da pesca che il Signore cala dentro di noi per tirar su dal profondo le cose che dobbiamo anche noi esporre alla luce del Signore, Dio ci educa alla fede attraverso domande non attraverso dogmi, non attraverso catechismi. Noi dobbiamo riuscire a porre le domande giuste in un mondo che ha tutte le risposte ma gli manca la vera domanda su Dio. La parrocchia, come anche ogni comunità cristiana, può essere un sale che perde il sapore e ha perso il sapore quando non comunica due cose: speranza e libertà. È la perla della lettera agli ebrei (3,6) che dice: casa di Dio siete voi se custodite libertà e speranza. Ci hanno ripetuto altre parole: casa di Dio siamo noi se conserviamo l'integrità della tradizione della morale. Ci hanno detto Tenda del Verbo siamo noi quando conserviamo vita ascetica e disciplina, il tempio dello Spirito, se abbiamo fedeltà e obbedienza. No, sono altre le forze che ci fanno abitazioni del Dio di Gesù Cristo, di questo Dio migratore che apre spazio, il liberatore. Le forze che attirano l' esodo di Dio e il dimorare di Dio nella storia sono libertà e speranza. Libertà perché è il suo nome, Lui è il Goel, il liberatore. In questo tempo delle passioni tristi, libertà e speranza sono due passioni calde e quindi non si tratta di mantenere tanto la vita di perfezione, non le grandi o più grandi opere. Dio edifica la sua casa, pianta la sua tenda laddove è abbracciato da uomini e donne che emanano libertà e speranza. Questi sono frammenti incandescenti del volto di Dio, sono sale e luce del vivere passioni calde e gioiose. Chi si avvicina a noi, a me, a noi sente un'area di libertà? Chi si avvicina alla parrocchia sente un'aria di speranza, che circola un vento di speranza? Percepisce che abbiamo dentro di noi qualcosa che spinge avanti o che ci stiamo leccando le ferite che la vita ci ha inferto? Se ci avessero fatto fare, dico io, voi suore potete capire, se ci avessero fatto fare voto di libertà invece che il voto di obbedienza, sapete quanto diversa sarebbe la Chiesa? E se insieme al voto di castità ci avessero fatto fare il voto di vastità, la vastità del cuore, cuore grande e spazioso, dove ci sia spazio per Dio e per i fratelli, per i poveri e per madre terra, per le lacrime del mondo e per le scoperte della scienza. Vastità del cuore, che luce darebbero le nostre comunità, che sapore vivo le nostre parrocchie, se chi ci avvicina potesse respirare un'aria di libertà e di speranza. Con queste due cose potremmo re incantare la vita. La vita di oggi è stretta in una tenaglia, i due denti della tenaglia sono da un lato l'indifferenza religiosa, ma l'indifferenza la batti solo con l'innamoramento, e dall'altro lato il fondamentalismo religioso di tutte le fedi che porta alla violenza. Con libertà e speranza possiamo re incantare la vita senza illudersi di essere chissà chi o chissà cosa. Nella Bibbia c'è l'economia della piccolezza che attraversa l'intera Sacra Scrittura e ne rappresenta una sua anima profondissima: l'anima di Abele, delle donne sterili e poi madri, di Giuseppe venduto schiavo dai fratelli. La storia dell'Esodo comincia con due donne, due levatrici che semplicemente fanno bene il loro lavoro, disobbediscono al faraone, obbediscono alla vita. Dovete uccidere i maschi, lasciar vivere le femmine, loro no, lasciano vivere tutti. Davide, il più piccolo di otto fratelli, troppo piccolo per fare il soldato, è lui che uccide il gigante Golia che impauriva tutti i grandi. Amos era raccoglitore di quel nulla che sono i frutti del sicomoro. Geremia, calato nella cisterna col fango alle ginocchia, una stalla a Betlemme, le beatitudini rivolte ai bastonati della vita, il Golgota… Ecco allora Dio che si è scelto come alleato il più piccolo tra i popoli. Che si incarna e diventa bambino, non un adulto fiero e forte, non un anziano saggio. Diventa bambino e i Magi adorano il bambino in braccio a sua madre. Un messaggio stupendo. Nell'umanità di Gesù dobbiamo cercare la sua divinità. Il Vangelo è il racconto di epiche sproporzioni tra il piccolo e il grande, tra cinque pani e cinquemila persone, la sproporzione nella storia dei grandi tra Cesare Augusto, Erode, Pilato e una coppia di ragazzi, Maria e Giuseppe tra gli angeli in festa e quattro pastori infreddoliti, tra la pace annunciata e la strage degli innocenti, il cielo e una stalla neanche tanto pulita.
Dobbiamo imparare a vedere nel piccolo il grande, nel poco che si vede il tanto che non si vede perché il regno di Dio è come un seme, verrà come albero grande ciò che ora è solo una ghianda, verrà come un pomeriggio pieno di sole ciò che adesso è appena un'unghia di luce all'orizzonte. La sproporzione è il luogo della speranza, non della disperazione, non del lasciarsi andare. La sproporzione tra ciò che io posso fare e ciò di cui c'è bisogno è esattamente il luogo dove apre le ali la speranza. Allora vorrei concludere adesso ricordando per un momento la chiamata di Levi, Matteo Levi. Come faceva Gesù a far convivere nel gruppo di apostoli quelli che avevano una piccola azienda di pesca, Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni e questo che faceva l'agenzia delle entrate per conto di Roma. Io non so come faceva, lui collaborazionista dei romani e poi Simone Lo Zelota, il cui nome significa il guerrigliero, il resistente uomo di spada. Solo Gesù riusciva a far convivere e a far vivere bene questa squadra così improbabile che nessun allenatore umano avrebbe voluto allenare. Allora in Luca, Levi riceve una chiamata: “Seguimi.” É straordinaria la prontezza della risposta ritmata su tre verbi tipici per seguire Gesù: lasciare, alzarsi, seguire. Lasciare tutto ciò che ci pesa, tutto il superfluo, tutto ciò che non serve pesa. Alzarsi perché noi non conosciamo la nostra statura fino a che non ci misuriamo con qualcosa di più grande di noi. Seguire: non un seguire geografico,ma per una nuova architettura dei rapporti umani. Ma la stranezza è che subito dopo Levi invita Gesù a pranzo a casa sua. Ma non era partito con lui? Non aveva lasciato tutto? Qui sembra invece che sia Gesù a seguire fisicamente Levi piuttosto che il contrario. Ma il racconto della chiamata con il suo corteo di verbi tecnici entra in collisione con quanto Luca vuol farci sapere.
E che cosa vuole farci sapere? Per seguire il Signore dobbiamo aderire interiormente alla sua chiamata e il luogo dove il nostro compito si svolge può essere la tua casa, il luogo dove il discepolo vive già come Levi, la tua casa. Questo messaggio è per noi, i discepoli di oggi. Nelle case, allora, può ripartire il cristianesimo e concludo con un decalogo sulla bellezza. Sono sempre stato affascinato dalle opere di bellezza che ci sono qui, dalle icone, da quell'albero che incombe e si innalza qui davanti. La poetessa greca Saffo dice: “la cosa più bella, io dico, è che uno ama”. La legge prima della bellezza e nell'atto d'amore . L’atto d'amore è sempre bello. Allora la bellezza non è la bella rappresentazione della realtà. Il pellegrino dell'assoluto non è la bella rappresentazione di un camminatore, è la raffigurazione di una realtà bella, di un amore che muove la vita. Il crocifisso coperto di sangue non è bello, ma è la figura di una realtà bella è la cifra della realtà più bella di Dio è un amore fino a morirne. E allora il corpo martoriato, piagato del crocifisso, una realtà imbruttita può essere anche la forma più alta dello splendore del bello. Con che cosa ci seduce Dio, con l'onnipotenza? Con l’onniscienza? Con l'eternità? Con la perfezione? Con la separazione dei buoni e dei cattivi nell'ultimo giorno? No, ci seduce per la bellezza di Cristo e in Cristo, per la bellezza dei suoi gesti d'amore. In quel crocifisso la suprema bellezza dice l'evangelista Giovanni: “il crocifisso è la gloria che si rivela”, lì è superata la frattura tra bellezza e forma. Lì l’arte, come arte divina di amare, si offre alla contemplazione cosmica, l'arte divina di amare. Questa è la croce. La cosa più bella è sempre l'atto d'amore, per questo la croce è bellissima. La verità dell'essere, la verità, la fioritura dell'essere splende nell'immagine di un crocifisso che non è bella da attirare lo sguardo, ma la rappresentazione dell'arte di amare di Dio. Dio ci seduce anche con la bellezza della creazione in cui è custodita in tutte le sue forme. Oggi ho ammirato tante violette, una profusione, uno scialo, un eccesso, un'eccedenza di viole, è una cosa meravigliosa e tutte le forme sono traccia della presenza di Dio. Sentite, Simone Veal dice: l'amore per la bellezza del creato è quasi l'unica via che permette a Dio di penetrare in noi, in tutto ciò che suscita in noi il sentimento puro e autentico del bello c'è presenza reale di Dio, la tendenza alla bellezza è la trappola più frequente di cui Dio si serve per aprire l'anima dell'uomo. La bellezza è l'esca del divino. Ecco allora perché credo. Perché Dio è la cosa più bella che ho incontrato. La fede è acquisire la bellezza del vivere. É bello vivere, amare, abbracciare, seminare, lavorare, avere amici. È bello essere su questa terra, perché tutto ha senso. Il senso della vita è positivo in questo scorrere verso l'eternità. E allora ecco, ricordiamoci, noi diciamo la bellezza equivale ad estetica. L'estetica deriva dal termine greco che significa sento, percepisco, avverto. Nella sua radice “estetico” significa sensibile, che tocca, che causa emozione, causa meraviglia, coinvolge e si riferisce allo stesso tempo a qualcosa che incide, segna, appassiona, causa gioia o dolore. L’estetico quindi è molto più che il bello, è il gradevole, l'elegante e l’armonioso. Letteralmente il contrario di estetico non è il brutto, ma l'anestetico, l’insensibile che ti rende incapace di percepire emozione e dolore. L'estetica, il contrario dell’estetica è un anestetico, l'anestesia del vivere, l'atrofia dell'esistenza. Allora lasciamoci toccare. La bellezza e la tenerezza sono le due forze che salveranno il mondo. Stiamo attenti a che Dio non muoia di noia nelle nostre chiese, perché muore della nostra indifferenza non di contestazioni o di lacrime. Allora, dicevo, il decalogo. Ecco le ultime dieci parole: Primo: la bellezza è un nome di Dio. Nella Bibbia è anche il primo nome delle cose.
Secondo: la bellezza é l'estasi della storia, come una porta che si apre e mostra che le cose sono abitate da un oltre, da un frammento, il tutto. Terzo: la bellezza è il progetto di Dio per l'uomo e per il cosmo, é la nostra vocazione. E la vita spirituale consiste nel liberare tutta la bellezza che Dio ha sepolto in noi.
Quarto: bello è ogni atto d'amore, bellissimo è chi tu ami, la legge primitiva della bellezza è nell'atto d'amore, Quinto: la bellezza è anche a caro prezzo. Infatti, la vita ascetica, contemplativa dei padri del deserto, dei pellegrini dell'assoluto, per quanto dura, era chiamata la filocalia, che vuol dire amore per la bellezza o anche la bellezza dell'amore pagata a prezzo di impegno. Sesto: la bellezza è il superfluo necessario. Necessario alla qualità della vita perché non di solo pane vive l'uomo, ma anche della contemplazione delle pietre del mondo, del profumo di Betania versato sui piedi di Gesu' e del vino di Cana moltiplicato.
Settimo: la bellezza é l'esca del divino, è il sorriso di Dio rimasto impigliato dentro la materia. La vicinanza di Dio crea bellezza. Io ringrazio per questa Chiesa, per tutta la bellezza che c' è qui perché la liturgia è sempre la massima condensazione di forme d'arte, architettura, pittura, scultura, la parola, il canto, la musica, l'arte del celebrare.
Ottavo:la bellezza é Dio che crea comunione, che ci lega a se'. Nono: la bellezza è la porta della conoscenza. Solo lo stupore coglie qualcosa nel profondo delle cose, mentre i concetti creano idoli e l'ideologia è la devastazione della creatività.
Decimo: la bellezza è la forza del cuore. La forza del cuore perché il buono e il vero diventano forza che muove solo se sono anche belli, ti mettono in cammino solo se sono belli. Allora si risveglia il desiderio, è la bellezza che persuade l'animo umano. La bellezza, perché è anche in sé profezia e memoria di felicità e dona una gioia senza secondi fini.
Allora, a conclusione, vi lascio queste due parole: che ci sia in ogni casa l'angolo della bellezza, l'angolo dove ci sia qualcosa di bello che apre all'infinito, all'oltre. Che ci sia in ogni casa, in ogni parrocchia, il tempo della tenerezza, perché solo questo ci rende davvero fratelli e testimoni. Allora le due sole forze, bellezza e tenerezza, le due sole forze che salveranno la Chiesa, salveranno la storia, salveranno il nostro cuore. Ecco, grazie.