Carlo Mattioli (1911-1994), nato a Modena, si trasferì giovanissimo a Parma per studiare e poi insegnare all’Istituto Statale d’Arte. Già prima del II° conflitto mondiale frequenta un attivo e fecondo circolo di artisti che comprende Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Morandi e molti altri. La sua larga e personalissima produzione non si è accompagnata a mode o correnti, ma è corsa libera in tutta la fase che va dal dopoguerra agli anni ’90; dapprima poco conosciuta e poi sempre più apprezzata fino alla grande glorificazione negli ultimi anni di vita e soprattutto dopo la sua scomparsa. Esso è quindi oggi ritenuto uno dei massimi artisti italiani del novecento. Specifica e personalissima è la sua produzione nel campo delle icone testimoniata da innumerevoli Crocifissi e Grandi Crocifissi, evoluti nel tempo e di cui i due presenti nella Parrocchia della Trasfigurazione rappresentano l’esito finale e forse più maturo, ma anche da diverse altre opere pittoriche e scultoree fra cui si segnala Il Pellicano, una magnifica fusione in bronzo collocata nella Cappella feriale della Trasfigurazione.
Si tratta di una scultura in bronzo che raffigura il Pellicano, simbolo di Cristo, che si ferisce il petto per permettere ai propri piccoli di nutrirsi, secondo una leggenda molto antica. Commenta don Pino nel 30° anniversario: «È il primo dono che l’Autore ha fatto alla nostra comunità e che ci ha permesso di inaugurare la Cappella feriale a fine novembre 1989.» Seguirà un mese dopo il dono del Crocifisso. La simbologia del pellicano che nutre col proprio sangue sembra sia stata adottata a partire dal medioevo come allegoria del Cristo che, sulla croce, sparge il proprio sangue per la salvezza degli uomini. In particolare si attribuisce a S. Tommaso d’Aquino il verso composto nel 1264 in occasione della introduzione della solennità del Corpus Domini: «Pie pellicane, Jesu Domine», ossia “Oh, pio pellicano, Signore Gesù, purifica me, immondo, col Tuo sangue;/del quale una sola goccia può salvare il mondo intero da ogni peccato.”. Anche Dante, nel Canto del Paradiso, cita il “nostro Pellicano” parlando di Giovanni che, nell’ultima cena posò la testa sul petto di Gesù. Una raffigurazione del Pellicano (probabile opera medioevale) è posta anche nella presunta sala dell’Ultima Cena a Gerusalemme. Nonostante la bellezza del manufatto, esso ha avuto finora una scarsa o nulla attenzione da parte dei commentatori dell’opera di Mattioli, forse per la sua unicità e per la sua collocazione in una Chiesa di periferia. L’occhio attento coglie tuttavia la grande abilità dell’artista, che nell’occasione si fa scultore, ma soprattutto il suo vigore espressivo che si manifesta nella dedizione curante della madre-pellicano e nell’attesa spasmodica dei suoi pulcini, mentre le ali abbozzate - che sembrano ancora riportare i segni delle dita del facitore - si aprono a mo’ di protezione e di abbraccio, ma anche come braccia aperte su una croce.
Scrive don Pino in occasione del 30° anniversario della Trasfigurazione: «Possiamo dire che la cappella feriale è diventata progressivamente un programma di vita spirituale: uno spazio capace di generare persone che avvertono la necessità individuale, ma anche comunitaria (perché ministri dell’Eucarestia, animatori, catechisti) di tenere incandescente il nocciolo del cristianesimo.» La scultura ospita nel proprio petto la ciotola che contiene il pane eucaristico, ossia quel nocciolo incandescente da cui fiorisce la vita comunitaria. Il Pellicano evoca quindi immediatamente la liturgia pasquale e la comunione comunitaria. Esso costituisce quindi uno dei riferimenti liturgici fondamentali del programma iconico della cappella feriale.
Nella Cappella feriale, a sinistra di chi guarda entrando. La scultura è apribile sul davanti per poter contiene al proprio interno l’eucarestia. Poggia sopra una mensola di legno il cui disegno richiama la tavola dell’altare. Dietro alla scultura è posta la creazione grafica di Del Zotto indicata come Lampada del Santissimo.