XXXIII domenica del Tempo ordinario (A)
Prv 31, 10-13. 19-20. 30-31 / Sal 127; 1 Ts 5, 1-6; Mt 25, 14-30
IN POCHE COSE
Come vivere il “frattempo”, cioè il tempo che va dalla morte e risurrezione del Signore fino al suo ritorno? Nel Vangelo di Matteo per rispondere a questa domanda, dopo la parabola delle dieci vergini, troviamo un’altra parabola: quella chiamata “dei talenti”. È il tempo della Chiesa, dalla comunità dei discepoli di Gesù che camminano insieme nella storia custodendo la memoria del loro Signore, pellegrini verso il Regno che viene. Quale risposta dà allora il vangelo a questo fondamentale interrogativo: come vivere il “frattempo”?
Per la parabola che Gesù racconta, il segreto del futuro sta tutto racchiuso in un semplice frammento di presente. «Bravo, servo buono e fedele, sei stato fedele in poche cose, ti costituirò su molte!» (Mt 25,21.23). Queste sono le parole che il padrone rivolge ai servi che hanno fatto fruttificare i loro talenti. La “vigilanza” nell’attesa del padrone che tarda a venire è chiamata dal Vangelo “fedeltà in poche cose”. La comunità diviene accogliente verso il Signore che attende alla fine della storia, se sa vivere nella “fedeltà” il presente. Così il “segreto” del futuro sta tutto racchiuso in un semplice frammento di presente. L’attesa del futuro, dell’incontro con lo “sposo” che tarda a venire non è autentica attesa, non è vigilanza, se non sa riempire di senso e di frutti il presente e non fa risplendere la vita «nelle poche cose» di ogni giorno di una preziosità superiore a quella delle perle.
La “timorosa attesa” che ci conduce a divenire custodi paurosi e gelosi dei nostri tesori, insieme al presente, ci fa mancare anche all’incontro futuro che attendiamo. Nel lungo tempo dell’assenza del padrone i servi devono investire far fruttare la moneta che hanno ricevuto. Ma ciò che li può bloccare, come accade al terzo servo, è l’immagine che hanno del padrone. È la paura che li blocca, che fa sì che il terzo servo nasconda il suo talento sottoterra.
Tutto il tempo dell’assenza del padrone deve essere quindi un tempo per portare frutti, per impegnarsi perché «il tesoro» che è stato affidato ai servi cresca fino al suo ritorno. Interessante l’uso del verbo “consegnare” (paradidomi), o almeno suggestivo. È il verbo della “tradizione”. Per il Vangelo non c’è autentica tradizione se ci si accontenta di custodire gelosamente e passivamente ciò che si è ricevuto, se lo si sotterra. Vera tradizione è investire ciò che si è ricevuto per poterlo riconsegnare arricchito e vivente.
La parabola offre anche a noi importanti spunti di riflessione, non solo ai discepoli di Gesù che camminavano con lui. Il periodo della sua assenza, cioè il tempo che anche noi stiamo vivendo, è il tempo per investire, per lavorare, per far portare frutti al «tesoro» del Vangelo che Gesù ci ha lasciato prima della sua partenza. Anche Gesù è partito «per un viaggio». Noi suoi discepoli dobbiamo saper vivere il tempo dell’attesa non nella fretta di risolvere le cose a modo nostro e con i nostri metodi, ma facendo fruttare il tesoro del Vangelo “fino al suo ritorno”.
Il cristiano non può non sporcarsi le mani nella storia degli uomini perché proprio lì e solo lì può seguire il suo Maestro, può cogliere il futuro che già si rivela. Dice Giovanni Climaco che «il Cristiano è imitazione di Cristo… in parole, opere e pensieri…» (La scala, I,7). Quelle strade che Gesù ha percorso, quel lavoro che Gesù ha fatto con le sue mani, quegli incontri che egli ha vissuto, quelle guarigioni/liberazioni che egli ha operato… quelle piccole e semplici cose che egli ha amato… sono le strade, i lavori, gli incontri, le liberazioni… le piccole e semplici cose che rendono accoglienza di futuro e di pienezza la vita dei suoi discepoli nel tempo dell’attesa, il nostro tempo.
Matteo Ferrari, priore di Camaldoli