Trasfigurazione Parma











V DOMENICA di PASQUA - B


At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8







Introduzione

La liturgia di questa domenica del Tempo di Pasqua è caratterizzata dal brano evangelico, tratto dal discorso di addio di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con al centro l’immagine della vite e dei tralci (Gv 15,1-8). Anche questa immagine, come quella del pastore nella domenica precedente, va letta alla luce del contesto pasquale nel quale ci troviamo. Nella prima lettura il testo degli Atti degli Apostoli (At 9,26-31) descrive i primi passi del ministero di Paolo e fornisce un altro quadro della Chiesa nascente nel sommario finale. Il brano della seconda lettura (1Gv 3,18-24) può fornire alcuni spunti per descrivere il modo del credente di essere unito come un tralcio alla vite che è Cristo risorto.



Commento

In questo Tempo pasquale, nel quale la Chiesa medita e celebra la presenza del Signore risorto in mezzo a lei come fonte della sua vita e senso del suo camminare nella storia, risuona la parola di Gesù che si definisce come la «vera vite». Il risorto nella vita della Chiesa è la vite; i discepoli sono come i tralci che da lui traggono la vita. Una immagine molto bella che ci appare subito chiara, almeno nei suoi aspetti più immediati. Emerge innanzitutto la necessità di rimanere uniti a Gesù per avere la vita. Infatti è questo il rapporto tra i tralci e la vite: essi rimangono in vita grazie alla linfa che ricevono dalla vite. Un messaggio fondamentale, apparentemente scontato, che tuttavia è nella storia l’elemento indispensabile per la vita e la missione della Chiesa.
Anche se questa immagine appare così immediata, possiamo tuttavia cercare di comprenderla meglio. Perché questo legame tra Gesù e i suoi discepoli, tanto da essere paragonato a quello che i tralci hanno con la vite? In che cosa consiste tale legame? Qual è la linfa che scorre dalla vite ai tralci?
Per comprendere questo, per rispondere a queste domande, dobbiamo cercare di interpretare meglio le parole di Gesù. Egli parla di una «vite vera»: egli è la vite, quella vera. Per noi questo significa creare una contrapposizione con una «vite falsa». Infatti, per noi «vero» si contrappone a «falso». In questo caso, se Gesù è la vite vera, allora significa che Israele, il popolo di Dio dell'antica alleanza, non sarebbe la vite vera, ma quella falsa? Sarebbe una conclusione inaccettabile sia per l’insegnamento delle Scritture, sia per la compressione contemporanea del Vangelo di Giovanni, sia per il più recente magistero ecclesiale.
Ma c'è un altro modo di leggere questa espressione di Gesù. Infatti non dobbiamo dimenticare che il mondo della Bibbia spesso usa categorie che sono differenti da quelle che sono per noi abituali. Se nella cultura greca, dalla quale dipendiamo, «vero» si oppone a «falso»; in quella ebraica, dalla quale nascono le Scritture ebraico-cristiane, «vero» è piuttosto corrispondente a ciò che noi potremmo definire «fedele». Pertanto potremmo dire che Gesù identifica se stesso non tanto con la «vite vera"», ma con la «vite fedele». Gesù dice: «Io sono la vite, quella fedele».
Emerge allora l'immagine dell'Israele fedele, del resto di Israele, che ha custodito la fedeltà al suo Signore e alla Torah, di cui già le Scritture ebraiche ci parlano. Gesù è il Figlio obbediente al Padre, è colui che ha fatto la volontà di Dio e ha donato la sua vita fino alla fine, facendone un capolavoro di umanità. Allora la linfa che scorre dalla vite ai tralci e li mantiene in vita è appunto la «fedeltà», la possibilità di essere figli nel figlio, di vivere la stessa logica di vita che egli ha vissuto nel suo rapporto con Dio e con i fratelli e le sorelle. Questo è il frutto che i discepoli di Gesù, se rimangono uniti a lui come i tralci alla vite, possono portare; si tratta del frutto nel quale Dio è glorificato, cioè si rivela come operante nella vita dei credenti e risplende davanti agli occhi di tutti.
Tuttavia l’adesione al Signore come il tralcio alla vita non è una questione puramente individuale. C’è una dimensione ecclesiale e comunitaria che è imprescindibile. È quanto emerge nel racconto degli Atti degli Apostoli, nella prima lettura, nel quale Paolo, dopo l’adesione al Signore deve necessariamente, grazie alla mediazione di Barnaba, far parte della Comunità ed essere accettato in essa per poter svolgere il suo ministero. L’adesione quindi al Signore risorto non è un fatto puramente individuale e non può esserlo. Il testo giovanneo potrebbe essere letto in questa prospettiva individualistica. Gli Atti invece sottolineano come non ci possa essere adesione autentica al Signore senza un inserimento nella comunità, che passa attraverso la mediazione di altri.
Il testo della seconda lettura sottolinea ancora una volta in che cosa consista la possibilità di «rimanere» in Dio: «Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui». Oggi i discepoli di Gesù possono rimanere uniti a lui, come i tralci alla vite, se custodiscono le sue parole. Aderire a Gesù Cristo e alla sua parola e vivere nell’amore reciproco in comunità è il modo concreto con cui oggi si può avere vita, ricevendo la linfa dalla vite che è il Signore risorto.

Conclusione

Questo è il frutto pasquale, il dono pasquale che la liturgia di questa domenica celebra e che dobbiamo custodire nella nostra vita. L'eucaristia che celebriamo è la cattedra dalla quale il Signore Gesù ci rivela la sua fedeltà al Padre, partecipando al suo pane e al suo calice anche noi siamo in comunione con questa fedeltà, uniti a lui come i tralci alla vite, per portare frutto e per divenire con la nostra vita una risposta al canto d'amore che Dio canta per la sua vigna.



Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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