Trasfigurazione Parma











XXX domenica del Tempo ordinario


Ger 31,7-9; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52




PRESE A SEGUIRLO


Introduzione

Nella liturgia della trentesima Domenica del Tempo ordinario – B il brano della prima lettura di Geremia (Ger 31,7-9) diviene la chiave di lettura con la quale leggere il brano evangelico della guarigione del cieco di Gerico (Mc 10,46-52), ormai alle porte di Gerusalemme al termine del cammino di Gesù. Il brano della Lettera agli Ebrei (Eb 5,1-6), attraverso il parallelismo con la figura del sommo sacerdote, ci mostra Gesù come uno che «è in grado di sentire compassione per coloro che sono nell’ignoranza e nell’errore», poiché anche lui ha assunto la nostra debolezza.


Commento

Al centro del brano di Geremia profeta troviamo il verbo «ritornare». Il soggetto che deve compiere questo ritorno è il popolo in esilio. Questo termine è come circondato da molti altri che hanno un significato simile: ricondurre, radunare, riportare. Tutti questi verbi hanno Dio per soggetto. C’è un ritorno dalla terra d’esilio che il popolo deve compiere, ma tale ritorno è possibile solamente perché Dio stesso ribalterà le sue sorti.
Questo intervento di Dio è tanto più evidente se prendiamo in considerazione chi sono i protagonisti di questo ritorno. Essi sono infatti il cieco, lo zoppo, la donna incinta e quella che sta per partorire. Si tratta cioè di categorie accomunate dalla caratteristica di essere inadatte per intraprendere un viaggio, soprattutto se lungo e pieno di rischi. In questo modo Geremia afferma che il ritorno degli esiliati è impossibili, se si guarda alle sole possibilità umane. Si parla quindi di un ritorno, ma potremmo dire anche di una «conversione», di una trasformazione – nell’Antico Testamento i due aspetti sono sempre legati tra loro – che non è conquista del popolo, ma opera e dono di Dio. Gli esiliati erano partiti nel pianto e ora è Dio che li riconduce «tra le consolazioni». Il testo di Geremia indica anche qual è la motivazione sulla quale poggia questa straordinaria azione di Dio: «perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito» (Ger 31,7). Come nel libro dell’Esodo (Es 4,22), Israele è chiamato da Dio «figlio primogenito» – sono le uniche due ricorrenze dell’espressione bekorì / «mio primogenito» nelle Scritture ebraiche – e Dio a sua volta si definisce come un «padre» per Israele. Il ritorno allora non solo non avviene per opera del popolo, ma poggia unicamente su un legame familiare con Dio che Israele non ha cercato, né meritato.
Nel brano del Vangelo la narrazione si apre con la descrizione della situazione iniziale (v. 46): «Mentre (Gesù) partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada (parà ten odon) a mendicare» (v. 46). C’è un uomo cieco che è ai margini della via sulla quale cammina Gesù nel suo viaggio verso Gerusalemme. Egli è incapace di camminare, incapace di percorre la via ai margini della quale è seduto e di seguire Gesù, proprio perché è cieco e non può vedere. Al termine poi abbiamo la situazione finale (v. 52b): «E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo sulla via (en ten odon)». Quell’uomo che non poteva camminare sulla via perché era cieco, ora, riacquistata la vista, comincia a seguire Gesù sulla sua via. È evidente allora che anche qui si parla di una conversione, di una trasformazione che avviene per Bartimeo grazie all’incontro con Gesù. Come in Geremia, chi è inadatto a compiere un viaggio viene rimesso sulla via per andare a Gerusalemme. Nel cuore del racconto abbiamo la descrizione di questa trasformazione che Bartimeo vive.
Se Bartimeo è ai margine della strada incapace di camminare e di seguire Gesù, il suo grido «Figlio di Davide, abbi pietà di me» (Mc 10,47-48), fa in modo che anche Gesù si fermi. Colui che cammina sulla via ed è seguito da tutti gli altri improvvisamente interrompe il suo cammino e si ferma. Tutto improvvisamente si ribalta: Gesù che cammina si ferma, le folle che ostacolavano il cieco lo conducono da Gesù, colui che chiama è chiamato: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» (v. 49). È il primo passo della conversione di Bartimeo che, ancor prima di essere risanato nella vista, si trasforma da supplicante a chiamato e dalla sua posizione ai margini della via viene rialzato e messo sulla via, in movimento verso colui che lo chiama. Egli getta via il suo mantello, segno della sua precedente condizione, per correre incontro a Gesù. E tutto questo accade grazie al suo grido di aiuto – la sua preghiera – rivolto al Figlio di Davide e alla sosta di Gesù, l’uomo sempre in cammino, lungo la sua via. È una sosta di Gesù che permetterà al cieco di rimettersi in cammino dietro di lui.
Una seconda tappa nella conversione di Bartimeo è provocata da una domanda di Gesù: «Che vuoi che io ti faccia?» (v. 51). Sembra quasi scontato o fuori luogo chiedere ad un cieco che cosa desidera, ma Gesù pone questa domanda, perché l’uomo spesso non sa di essere cieco e deve poter giungere a formulare questa richiesta. Gesù non può fare nulla per chi non sa di aver bisogno di lui. Ora Bartimeo non chiama più Gesù «figlio di Davide», ma «maestro mio». Egli è l’uomo che non invoca più solamente di avere pietà di lui, ma giunge a chiedere la luce. Tale domanda la rivolge a colui che è maestro e può quindi donare la possibilità di vedere. La risposta di Gesù è molto significativa: «va’, la tua fede ti ha salvato» (v. 52). Egli non fa menzione della guarigione dalla cecità, ma attesta la fede. Come se la vista riacquistata fosse la manifestazione nel corpo di Bartimeo della sua fede. Ecco la seconda tappa della conversione di Bartimeo: egli non è divenuto solo «vedente», ma anche «credente».
Infine abbiamo un’ultima conversione di Bartimeo: egli da uomo ai margini della via, è ora sulla via, dietro a Gesù. Dai margine della via che va verso Gerusalemme, Bartimeo passa ad essere viandante sulla medesima via di Gesù.
Subito dopo questo brano nel Vangelo di Marco troviamo l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme (Mc 11,1ss.), dove egli vivrà la sua passione e morte. Questo è anche l’ultimo miracolo di Gesù. L’ultima azione potente che Gesù compie è la guarigione di un cieco, ma soprattutto la trasformazione di un uomo seduto ai margini della sua via – quella che sale a Gerusalemme – in un viandante che lo segue verso la medesima meta. Potremmo dire che l’ultimo miracolo di Gesù – non ne servirà nessun altro in seguito – è quello di «fare un discepolo», far sì che uomini e donne ai margini della via e incapaci di seguirlo, divengano viandanti come lui.


Conclusione

In questa domenica colui che cammina sulla via si ferma per chiamarci e per trasformare anche noi in discepoli e discepole, per toglierci dai margini della via, e rimetterci in essa, in cammino dietro di lui verso Gerusalemme. È l’ultimo atto di potenza di Gesù, quello di trasformare noi, che ascoltiamo la sua parola, mangiamo il suo pane e beviamo al suo calice, in suoi discepoli, ciechi guariti e resi credenti, capaci di camminare dietro di lui sulla sua via.



Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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