Trasfigurazione Parma











II domenica di Avvento – C


Bar 5,1-9; Salmo 125; Fil 1,4-6.8-11; Lc 3,1-6




LA PAROLA NEL DESERTO!


Introduzione

Nella II domenica di Avvento compare una delle figure che maggiormente caratterizza questo tempo liturgico, quella di Giovanni Battista. La figura di Giovanni il battezzatore, che è presente nella seconda e nella terza domenica di Avvento, con tutti i richiami veterotestamentari che essa evoca (Elia, Geremia, i profeti…), si mostra come “icona” particolarmente forte di questo tempo che la Chiesa celebra.
Giovanni, possiamo dire, è l’uomo dell’Avvento, “cerniera” tra l’antica attesa, che nella venuta del Messia Gesù si è realizzata, e l’attesa di una compimento pieno e totale che ancora attendiamo e alla cui luce già ci muoviamo. Infatti Giovanni è per il Nuovo Testamento il “precursore”, quella figura che nell’Antico Testamento doveva precedere la venuta del tempo del Messia. Ma, se è così, il tempo di Giovanni non è solo icona che ci parla dell’attesa della venuta nella storia del Messia, ma rimane sempre annuncio dei tempi ultimi e del “giorno di YHWH” che ancora attendiamo nella fede, nella speranza e nella carità.
Proprio per questo motivo la figura di Giovanni Battista può essere considerata anche oggi come la figura di un “uomo dell’Avvento”, parola sempre rivolta ad ogni uomo e ad ogni donna che attraversano la storia in cammino verso l’incontro ultimo e definitivo con Colui che deve venire. E ad ogni uomo e ogni donna Giovanni continua a dire che questo è il tempo di “Colui che viene!”.
Nel complesso la liturgia della Parola aiuta a collocare una tale figura nella prospettiva dell’Avvento. Nel libro del profeta Baruc (I lettura) si annuncia agli esuli un ritorno futuro, usando il linguaggio dell’esodo. Mentre la seconda lettura tratta dalla Lettera ai Filippesi ci cala nell’oggi e ci mostra come ciò che viene annunciato è una realtà che non riguarda solo il passato ma tocca la nostra esperienza di credenti.


Commento

Baruc (I lettura) ci presenta Gerusalemme, rimasta “desolata” come una madre che ha perso tutti i suoi figli, ora all’orizzonte li vede ritornare “radunati” dalla Parola del Santo. Ora Gerusalemme può rivestire gli abiti della festa, lasciare gli abiti del lutto, e correre sulle alture che la circondano per vedere i suoi figli venire dal deserto: «Ecco i figli tuoi, riuniti da occidente fino a oriente, per la parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio». Tutto quanto viene descritto come “salvezza” è opera di Dio. I nemici hanno spinto con la forza i figli di Gerusalemme a lasciare la loro terra; il popolo è stato sconfitto ed allontanato “a piedi”, incalzato dai nemici. Ma ora è Dio che “riconduce” il popolo a Gerusalemme, come chi riporta alla madre i figli che si erano dispersi o che le erano stati strappati. Poi una serie di verbi che hanno Dio come soggetto: egli ha stabilito di fare una via per il suo popolo, «ha deciso di abbassare ogni monte alto e i colli secolari, e di riempire i torrenti appianando il terreno, affinché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio».
Come il popolo che era uscito dall’Egitto, liberato dalla potente mano del suo Dio, camminava alla luce della Gloria di YHWH nel deserto, ora anche i figli di Gerusalemme che ritorna dall’esilio camminano alla medesima luce. Quindi vivono un “nuovo esodo”. E come l’Esodo dei tempi di Mosè fu un inizio per il popolo di Israele, il momento in cui il popolo di Dio è nato e ha ricevuto la legge di YHWH, e ha scelto di “aderire” al suo Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù, così ora questo nuovo cammino nel deserto, questo nuovo esodo… è anche un “nuovo inizio”. Per iniziare nuovamente la sua relazione con il Dio dei Padri, Israele ha ancora bisogno di “attraversare il deserto”, per re-incontrare il suo Dio e “aderire” nuovamente a lui. Tutto è opera di Dio: è Dio che “riconduce”, ma occorre il deserto!
E proprio nel deserto ci conduce il brano evangelico. Ma prima il Vangelo di Luca fa una importante introduzione che troviamo nei vv. 1-2a: «Era l'anno quindicesimo del regno di Tiberio Cesare: Ponzio Pilato governava la Giudea, Erode era tetrarca della Galilea..., mentre Anna e Caifa erano i sommi sacerdoti». Queste notizie che sembrano essere delle pure informazioni cronologiche, nel piano “teologico” di Luca assumono un valore tutto particolare. Da “informazioni cronologiche”, divengono “coordinate teologiche”. Cioè introducendo così il suo discorso Luca vuole affermare che ciò che accadrà, cioè l’evento della Parola, incontrerà un uomo ben preciso, in una terra ben determinata e in un momento particolare della storia dell’umanità. La Parola, questo lo si può ricavare sempre leggendo i Profeti o la storia dei Patriarchi, non è disincarnata, ma si inserisce nella vita concreta della storia dell’umanità sia da un punto di vista cronologico che geografico. La Parola non parla all’uomo in generale, ma a uomini e donne ben precisi… è una comunicazione personale. Infatti subito dopo questa introduzione il testo ci informa che «la parola di Dio fu rivolta [lett.: fu sopra…] a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto». Giovanni da queste parole è collocato sulla “strada” di tutti i profeti e in particolare di Elia e di Geremia. Infatti sia per Geremia (Ger 1,1) che per Elia (1Re 17,2; 17,8; 20,28) si usa una espressione identica a quella che qui si riferisce a Giovanni. Per Geremia l’espressione è usata nel contesto della sua vocazione, Elia è invece la figura del precursore del Messia nell’Antico Testamento.
Nel testo si afferma che la parola [rema] di Dio “accadde” sopra Giovanni. Il termine usato per indicare la “parola” in greco, indica non solo ciò che per noi significa “parola”, ma come il termine ebraico dabar indica anche un “evento”. Quindi la Parola come “fatto”, come “evento” che travolge l’esistenza di una persona, si fa “evento” nella sua vita. Ma tutto questo avviene nel deserto. Il deserto è il luogo dove Giovanni può ascoltare la Parola che attende di diventare “evento”: e proprio perché c’è qualcuno che “abita” il deserto, la Parola che è “Evangelo” della salvezza può essere ascoltata e annunciata. Nell’Antico Testamento il deserto non è certamente il luogo idilliaco che spesso pensiamo, ma è il luogo decisivo dell’incontro con Dio. Il luogo della prova e del rischio della fede, ma anche il luogo dove si può sperimentare la cura di Dio in un’acqua che sgorga gratuitamente dalla roccia e in un pane che cade dal cielo e ricopre la terra. Anche per Elia il deserto è stato il luogo dell’incontro con Dio. Così per Giovanni: è perché c’è un “abitante del deserto” che la Parola-rema può essere ascoltata e dare inizio a quel “nuovo esodo” nel quale l’uomo e la donna possono sperimentare la salvezza di Dio. È Dio che “opera” questo ritorno, ma a noi spetta di “abitare il deserto” con tutto ciò che questo comporta… per diventare uditori di quella Parola che è il Verbo di Dio che si fa carne.


Conclusione

Nella Lettera ai Filippesi (II lettura) l’apostolo ringrazia Dio per una cosa molto particolare e che a noi suona un po’ strana. Tanto strana che anche nelle nostre traduzioni questo aspetto non si nota con chiarezza. L’apostolo ringrazia Dio perché i cristiani ai quali si rivolge hanno mantenuto la comunione con l’Evangelo e prega che essa cresca sempre più. Qui sta il “segreto” di ciò che può rendere il presente riflesso del futuro… la koinonia con l’Evangelo, con la parola di Dio capace di trasformare la rassegnazione della storia degli uomini in una danza che celebra la salvezza operata da Dio. Ma per fare questo occorre essere come Giovanni, “uomini e donne del deserto” che nel silenzio e nell’amore continuano a tendere i loro orecchi ad una Parola promessa e vicina… parola che annuncia un “nuovo esodo” e un ritorno alla città Santa che ci attende come suoi cittadini… per accoglierci tra le sue mura nella festa e nella danza.



Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli

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